Sin dai tempi del primo Doom – con la sua rivoluzionaria visuale in prima persona – l’idea di sfruttare un casco 3D, per immergersi completamente nei giochi, ha colpito l’immaginario di tutti i nerd di prima categoria che, pur di potersi accaparrare l’ultimo arrivato tra le tecnologie videoludiche, arrivavano a spendere anche due milioni di lire per il mitico VFX1. Oculus Rift sarà all’altezza delle aspettative? Tutto il progetto nasce da una raccolta fondi Kickstarter che, pur accontentandosi di 250.000 dollari per mettere in piedi il progetto, si è vista appoggiata per una cifra 10 volte superiore.
In realtà c’era da aspettarselo. I sogni di ogni bambino, sommati ad uno stato dell’arte videoludica alla portata di tutti, non avrebbero potuto fare altro che riscuotere un tale successo.
Il caro buon vecchio VFX1, sogno di ogni giocatore negli anni 90 |
Nonostante il progetto sia tutt’ora in fase di sviluppo, un bel po’ di development kit sono stati già spediti in giro per il mondo (chiunque può ordinarseli sul sito ufficiale). Grazie a BrunoB mi è stata offerta l’opportunità di provarne uno direttamente presso gli studi dei ragazzi di Studio Evil – famosi per aver programmato l’ottimo Syder Arcade – e di potermi rendere conto se il primo passo verso una Matrix creata dall’uomo fosse stato fatto.
Lo studio di programmazione dove io e BrunoB ci siamo recati si è mostrato esattamente come era lecito aspettarsi: accanto ai computer dedicati alla programmazione, una serie infinita di console più o meno moderne – dallo SNES a OUYA – pronte a suggerire al team la prossima riga di codice da compilare per rendere il prodotto una summa del meglio che il mercato abbia offerto fino ad oggi. Oppure per cazzeggiare.
Chi ci troviamo davanti è infatti un gruppo di ragazzi dall’evidentissima cultura videoludica, dei nerd come noi che come nerd ci trattano, lasciando presupporre che tutto ciò che nominavano facesse parte del nostro bagaglio culturale. Insomma, sapevano che non eravamo giornalisti de La Repubblica pronti a scrivere qualche stronzata sul fatto che i videogiochi trasformano i bambini in spietati killer.
Dopo le doverose presentazioni, e un gustoso spiegone sul loro lavoro, arriva il momento di passare all’Oculus Rift.
Un dispositivo quasi invisibile (da dentro) |
La prima cosa che ci viene fatta notare è che il dispositivo non è composto da due schermi, ma da un unico schermo di 1280×800 pixel, dove vengono mostrate due immagini, una nella metà sinistra per un occhio, ed una nella metà destra per l’altro occhio.
Grazie a due lenti montate davanti allo schermo ciascuna immagine viene visualizzata solo dall’occhio corrispondente. Un sistema semplice, ma a suo modo geniale, alternativo sia a tecnologie più diffuse, come le lenti polarizzate, che ad antichi stratagemmi, come le lenti colorate.
Purtroppo ciò implica anche che la risoluzione effettiva per ogni singolo occhio risulti inferiore ai 640×800 pixel (una grafica paragonabile alle vecchie SVGA o ai livelli di PS2).
Insomma niente di troppo complesso |
Il dialogo continua soffermandosi un attimo sulle potenzialità dell’accelerometro: ogni movimento della testa sui due assi principali (non percepisce la profondità) viene registrato e utilizzato per modificare in tempo reale la visione all’interno del gioco.
Ultima nozione prima di provare l’Oculus Rift: il sistema è ancora in sviluppo, i giochi che lo supportano sono pochi – anche se ci sono molti software che si interfacciano tra gioco e hardware per renderli compatibili – la grafica sarà molto pixellosa e c’è ancora questo piccolo problema di nausea costante che si prova giocandoci.
Quest’ultima frase l’avevo già sentita, ma non potevo neanche lontanamente immaginarmi l’effetto che avrebbe prodotto in realtà nella mia mente.
“Casco ben allacciato, luci accese anche di giorno e prudenza, sempre!” |
Si comincia con una passeggiata virtuale attorno e dentro una simpatica casetta. L’impatto iniziale è ottimo. La sensazione di essere veramente dentro il gioco è notevole e la reattività del giroscopio elevata. Purtroppo, appena si comincia a far camminare il nostro avatar con il gamepad, il cervello comincia a rispondere in maniera terribile.
Tempo 40 secondi e la nausea mi ha già colpito.
Più o meno… |
Pausa. Cambio gioco. Questa volta si tratta di una panoramica sulla protagonista di Lollipop Chainsaw. Qui subito emergono le incredibili potenzialità di questo gingillo per l’industria del porno. La cheerleader era lì, davanti a me, con il suo seno sballonzolante, e desiderosa di essere toccata. O presa a schiaffi. Ma niente, i miei schiaffi colpivano l’aria.
Altro giro di demo più o meno riuscite, e finalmente arriviamo alla famosa demo delle montagne russe. Nonostante la terribile nausea, niente mi ha vietato di godermi l’ottima sensazione provata con questo simulatore, che più di una volta mi ha fatto trattenere il respiro, urlare e sobbalzare come se fossi veramente su un rollercoaster.
Prima di andarcene, però, non poteva mancare il gioco vero e proprio: Half Life 2.
Schiaffi a vuoto anche per Alyx |
Il gioco, invecchiato benissimo, da subito mi fa capire che saranno 3-4 minuti terribili. La scena è quella iniziale, quindi niente sparatorie o movimenti bruschi, ma il mio cervello non ce la può fare. Giro, incontro le guardie, cammino a zonzo… ma la sensazione è pessima, come se fossi nel pieno di una sbronza epica.
Non riesco ad arrivare al primo combattimento, e tanto meno me la sento di saltare qualche scatola. Mi tolgo l’Oculus Rift – appannato come se lo stessi usando da ore – e ringraziando infinitamente per l’opportunità offertaci, ce ne andiamo.
In conclusione, Oculus Rift è il futuro del videogioco hardcore, ma c’è ancora da lavorare per evitare quello spiacevolissimo mal di testa (e di stomaco) che anche una breve sessione provoca.
Sorvolando sulla risoluzione, sicuramente migliorabile, quello che rimane è un oggetto dalle infinite potenzialità, che si spera non risulti un fuoco di paglia come quel lontano VFX1, che non ha mai smesso di affascinare noi nerd.